Manifesto Saccaromiceto
Julius Evola, 1920.
DADA NON SIGNIFICA NULLA
“ Il Manifesto saccaromiceto, con cui si sarebbe dovuta aprire la sezione centrale del fascicolo (Malombra, rivista a numero unico progettata da Evola, mai pubblicata) è l’ultimo testo teorico sul dadaismo redatto da Evola. Il titolo è probabilmente un richiamo alla definizione più famosa del movimento tzariano, altrimenti noto come il <<microbo vergine>> (in realtà un’autodefinizione contenuta nel Manifeste sur l’amour faible et l’amour amer, citata per altro nello stesso Manifesto), e fa riferimento a un particolare tipo di fungo microscopico che permette la fermentazione delle sostanze zuccherine in alcol. Metaforicamente, il processo del saccaromiceto potrebbe quindi indicare il passaggio da uno stato a un altro (con un rimando alla sfera ermetico-alchemica, indispensabile chiave di lettura per comprendere il percorso artistico evoliano) effettuato attraverso Dada. Il testo, che può essere letto come una summa di tutte le posizioni di Evola sul dadaismo, si presenta come una sorta di collage di pensieri e sentenze in puro stile dadaista, piuttosto che sotto forma di discorso composto da argomenti saldamente legati tra loro. Lo stesso modo di operare evolvano, consistente nell’estrapolare segmenti di testo da manifesti e interventi del Dada internazionale, appare qui più marcato che nelle precedenti occasioni. Se si pensa che già immediatamente dopo il fallimento di Malombra Evola si sarebbe rivolto alla speculazione filosofica, il testo assume anche un valore di congedo da quella che si potrebbe definire la prima, terrena stagione della sua esistenza: <<il piano inferiore dada>>. ”
Dada è il simbolo dell’antiumanità.
Dada è il microbo vergine, è il segno dell’astrazione.
Al disotto: dada è decomposizione, distruzione che in se stessa si chiude; egli è contro l’amore e l’entusiasmo, e ama le calze di seta; egli è anche contro le donne e contro la patria.
Dada: spingere tutto al buio, mostrare l’oscurità, il moto sordo della tenebra dietro a ogni cosa; scarnire se stesso dalle fedi e dalle illusioni della passione, fino a mostrare uno scheletro disarticolato, inesplicabile, senza nome né ragione.
Il fondo della vita è incomprensibile — comprendere qualcosa, è possibile solo a patto di essere superficiali — è incomprensibile non per la sua complessità o pel difetto dei nostri mezzi di conoscenza: ma perché, come la donna, non esprime, non significa nulla: non è che un caos in gravitazione sorda e buia sul quale, chi vuole, può allucinarsi; e allora si troveranno le scuse: il compito umano, la morale, la scienza...
La sete di conoscere è una malattia.
Chi è profondo non pone né risolve mai problemi, ma porta dappertutto oscurità e confusione.
La luce è un aspetto superficiale, un’illusione del buio.
Non esiste spiegazione che, approfondita, non porti al primo piano qualcosa d’oscuro e d’incomprensibile. Dada.
Dada è la negazione degli impulsi naturali e dell’intelletto; è la vita fredda e atona senza occhi né bocche. Tutti son direttori del movimento Dada.
Ogni persona intelligente è un presuntuoso o un intrigante di cose pratiche; essa, lo sappia o no, cerca il successo, il farsi un nome, il guadagnar danaro, il sedurre delle donne, il far della ginnastica, dell’amore, dell’Arte / coll’a maiuscola /, della politica, degli affari. A che pro, tutto questo? Per illudersi, per fuggire da se stesso, al difuori. Anche l’azione è una fuga e un abbruttimento. Dada non capisce nulla, Dada non vuole nulla. Dada è idiota e inerte: manca di genio, di forze, di spirito, ed è, assolutamente, di nessuna utilità pratica. Avrebbe potuto, pertanto, fare i conti con tutti voi, cari amici così fini e intelligenti…
A questo punto 60 lettori gridano: miserabili.
Dada è l’abolizione del sentimento e della famiglia.
Dada è il triste e muto prigioniero di ghiaccio, l’individuo che si rivolta dentro se stesso come un guanto, senza passione né visione, nell’impossibilità di discernere fra i varî gradi della luce incomprensibile.
Dada è contro Dada. Dada è contraddittorio. Dada è libero. Diffidate di Dada. Egli non promette nulla: solo l’amarezza che schiude il suo sorriso su tutto quel che è stato fatto consacrato e dimenticato.
Dada è distruzione.
Ma dir no, non è che una maniera malata di dir sì: chi va contro una cosa, in fondo non fa che accettarla ed affermarla in quanto ne ammette la preoccupazione. L’unico modo di distruggere si realizza col disincantarsi, col disinteressarsi delle cose. Dada non tocca nulla, ma allontana tutto: rende tutto estraneo ed esterno. Così distrugge. Inocula nel sangue il batterio della decomposizione per preparare nell’individuo il gran spettacolo del disastro.
E. [Vices-Vinci] si alza ogni mattina alle 7½.
Dada è aristocratico. Nulla tocca Dada.
La sua saggezza è che esiste una sola cosa profonda nel mondo: il persiflage di se stesso e degli altri. Dada a Roma passeggia soltanto per via Veneto e via Condotti, e prende il tè all’Excelsior. Fa anche delle manifestazioni perché non ha nulla da fare, e carezza le signore eleganti. G. Cantarelli fa delle gite sul lago di Garda.
Chi non è un mercante è Dada. Chi sente l’oscurità, e la ridda dei numeri opposti è Dada; se trovate tutte le vostre idee inutili e ridicole, se il sì è così indifferente quanto il no, e potete innalzarvi dalla vostra vita per guardarla colla viva soddisfazione che si tratta di una cosa con cui non avete nulla a che fare, sappiate che è Dada che ha cominciato a parlarvi.
Dada è sempre esistito. La Santa Vergine fu già dadaista.
Dada non ha mai ragione, né idee fisse: non è una scuola, non ha cassetto né teoria. Al di fuori di lui non v’è che carne, sudore, officine, palloni gonfiati e dorati, blenorragia, ministero, autosuggestione per pubblica utilità.
Dada però è una cosa senza importanza, ed è anche molto seria¹.
¹Questo manifesto era stato redatto da Evola per il numero unico Malombra, mai stampato, insieme ad altri testi e traduzioni. È stato pubblicato per la prima volta da Emanuele La Rosa, Ancora sul dadaismo in Italia. Evola e il progetto del numero unico “Malombra”, in Studi Evoliani 2012, Fondazione Julius Evola-Arktos, Roma-Carmagnola 2014, pp. 115–129.